La Maremma in Cucina
14 Agosto 2023A quel tempo bastava una stretta di mano. A quel tempo Erik il danese, sbarcato a Montemerano, sfidava alla morra i contadini del paese, e a notte fonda intrecciava le sue dita arrossate dai colpi a quelle dell’avversario: “Affare fatto”, si dicevano guardandosi negli occhi, e poco importa se dopo tanti bicchierini guardarsi negli occhi fosse impresa da tiratori scelti. “Affare fatto”, ed Erik lo straniero s’addormentava tranquillo, certo che il giorno dopo Cignale, Toncausci, Tascapane, Calzafina e tutti gli altri vignaioli in parola, gli avrebbero consegnato l’uva, come da accordo. Il peso stabilito, al prezzo stabilito. Affare fatto, Erik da quell’uva avrebbe fatto vino buono.
Cignale, Calzafina, Erik il danese, la morra nelle cantinette, le strette di mano che valgono un contratto: non sono personaggi e ambientazioni di novelle medioevali o d’ottocenteschi romanzi d’appendice, ma storia vera, storia di ieri l’altro. Fine anni Settanta, passato più che prossimo. Eppure, a ripensarci oggi, sembra trascorso un secolo. In mezzo, tra quel tempo e il nostro Duemila, il diluvio di un miracolo economico: il “vinaccio” di Maremma trasformato in oro rosso. Un fiume in piena, e alle sue sponde, folle di cercatori a setacciarlo. Il miracolo del Morellino di Scansano, giovane Doc alla conquista dei mercati internazionali, potente calamita d’investimenti e investitori miliardari che nel soffio di tre lustri hanno cambiato – se non il volto – redditi ed abitudini di un piccolo mondo antico. Una manna, per una terra affamata di sviluppo; la fine di un’epoca, per quei primi pionieri di ventura, che a mani sincere e sguardi d’intesa hanno sostituito firme e carte bollate, che alle partite a morra devono preferire libri contabili e strategie di marketing.
Questo è il rimpianto di Erik. Erik Banti, danese per parte di madre, toscano per parte di padre, forgiato al mondo da Roma e nello spirito dai colli di Montepulciano, rinato nelle vigne di Montemerano, domiciliato per ragioni aziendali a Scansano, approdato con ormai più di mezzo cuore agli assolati lidi di Spagna, cittadino dei cinque continenti che dopo aver lasciato il castello di Isola Farnese oggi si riposa – fra un volo e l’altro – in una “motorhome” di stanza a Sutri. Un’anima nomade dalle radici forti, picchiettata da quarti di genuina nobiltà. Un gentleman pellegrino, un playboy dell’esistenza. Uno che ha flirtato con mille esperienze, tante donne e infiniti paesi, ma che da sempre rivendica orgoglioso quella sua paternità: il miracolo del Morellino di Scansano, frutto del lungo e appassionato amplesso con la terra di Maremma. Perché su un punto, son tutti d’accordo, amici e detrattori, agiografi ed esperti super partes, cultori e dilettanti: se la “mater certa” del Morellino è la Maremma, padre certificato del suo successo è Erik Banti.
È una domanda che si è posto spesso, Erik, sempre, all’inizio di una nuova vita e di una nuova sfida. Un’attitudine precoce, a divorare esperienze diverse, ma ogni volta con l’intenzione di mettersi alla prova, di essere il migliore. A dodici anni vince la sua prima gara di golf, passione originaria e mai tradita; indossa la maglia della nazionale juniores, conquista trofei all’estero e titoli italiani. Intanto, tra un “green” e l’altro, scopre il fascino delle auto da corsa. E’ fortunato, Erik, che può salire a bordo degli ultimi anni dell’automobilismo “storico”, quando Monza mozzava il fiato con la mitica curva parabolica e il Mugello – lontano dall’essere un circuito – era uno strepitoso saliscendi nell’Appennino tosco-romagnolo. Corre la Targa Florio insieme alle Ferrari, alle Porsche e alle leggendarie Chaparral, antesignane delle auto “spaziali”; s’aggiudica un campionato italiano classe Gt 1300. Ad altri tutto questo basterebbe per riempirci un paio di vite. A Erik Banti no, lui corre, gioca, vince, ma deve anche creare. Incontra l’arte della fotografia, apre uno studio in piazza di Spagna, e bevendo a pieni sorsi la bella vita della Roma anni Sessanta collabora alle campagne pubblicitarie di grandi multinazionali e firma reportage per il National Geographic, mentre il cinema lo chiama, fotografo di scena per maestri come Fellini, Zeffirelli o Bolognini.
“L’Italia di quegli anni – ricorda – correva veloce”. La lira prendeva l’Oscar della miglior moneta al mondo, ed Erik faceva conoscere le qualità del made in Italy spezzando cuori nei paesi che sceglieva per dimora, da New York alla Svizzera passando per la materna Danimarca. Gli piaceva viaggiare, insomma, e allora ecco, nel 1970, che apre – di nuovo a Roma – un’agenzia di viaggi. “Ma chi è un agente di viaggi?”, si chiede Erik oggi come allora, pronto per ripartire a nuova vita. “Io non potevo soddisfare il mio ego facendo biglietti d’andata e ritorno. Io al mio cliente dovevo creargli il viaggio”. Et voilà, la Banti Viaggi, nel 1972, è la prima a portare gli italiani alle Maldive, costruendo una meta “archetipica” del turismo esotico nostrano. “Ho sempre anticipato i tempi – dice Erik – e spesso non sono stato capito”. In anticipo sul futuro, per esempio, insieme all’amico Stefano Milioni ci arrivò anche nel 1977: non solo “esportazione” di turisti verso l’estero, ma anche “importazione” di stranieri in Italia. Lungo le rotte, intuirono i due, dell’enogastronomia, un percorso dalle potenzialità straordinarie che fino ad allora nel nostro Paese non era stato battuto da nessuno. Erik dirotta impegno ed energie della sua azienda su questa brillantissima intuizione, e con l’insperato aiuto del sommo Veronelli, rapito dal progetto, chiude un accordo con l’Alitalia. Dovrebbe essere il nuovo decollo e invece si rivela un brusco atterraggio. All’ultimo momento Alitalia fa marcia indietro, e Banti Viaggi subisce un colpo da ko. “Una brutta botta”, addio Roma, è l’ora del buen retiro a Montemerano.
Dove appunto, siamo nel 78 (guarda caso proprio l’anno in cui il Morellino di Scansano ottiene la Doc), smaltite un po’ di tossine Erik si fa raggiungere dalla solita, ineludibile domanda: “Che cosa faccio qui?”. La risposta soffia nel vento: Montemerano, il Morellino, l’enogastronomia… Il gioco è fatto. La prima vendemmia ufficiale con bottiglia firmata da Erik Banti data 1981. Le uve vengono dal podere Ciabatta (un fazzoletto da un ettaro e mezzo) e dai poderi dei vicini: “Cignale, Troncausci, Tascapane, Calzafina, Miledi, Ivonne… Loro sì, persone vere, i miei primi fornitori”. Ma Banti non s’accontenta di essere un produttore, lui pretende, come sempre, di diventare il migliore. Non comprando il titolo a suon di bigliettoni, ma sudando e lavorando ogni giorno per centrare l’obiettivo. Perché ci crede, al Morellino. E vuole dimostrare al mondo intero che ha ragione lui. “Bisogna puntare in alto e non scendere mai a compromessi”, ripete come un motto. E per puntare in alto, bisogna innanzitutto farsi conoscere. Così, mentre lavora a migliorare il suo vino, Erik si mette in capo di far conoscere a tutti le qualità del Morellino. Si guarda intorno e si rende conto che la strada da percorrere è ancora lunga e faticosa. Il dado però è tratto.
Apre una cantina, e si consulta ancora una volta con Veronelli che lo indirizza ai vinificatori, a quel tempo, dalle migliori speranze. Sellari Franceschini, Mantellassi, Pupille, la Cantina Cooperativa di Scansano e, naturalmente, lui. I nomi storici, i pionieri. Erik gira, esplora, assaggia, produce, e si convince che le potenzialità ci sono tutte. Quello che manca è una giusta strategia di mercato. E’ necessario farsi ammettere nei “salotti” giusti, nelle enoteche che fanno tendenza. Carica sul furgone, e si mette a macinar chilometri, su e giù per l’Italia, a presentare il top del Morellino nei locali top di Milano, Torino, Bologna, Firenze…
“Una scommessa ardita, fatta di piccole vittorie e tanti portoni sbattuti sui denti”.
Nel 1994 Erik ha lasciato Montemerano, per trasferisrisi pochi chilometri più in là, a Scansano”. Velocità del business, anche questa cantina, in pochi anni, è diventata “vecchia”, secondo quanto impone la stritolante nuova nuove legge del mercato. Oggi per stare in alto, non basta più fare il buon vino, ma serve tanta immagine e strategia di marketing. Erik scuote la testa, ma si adegua. Anzi, rilancia, perché comunque vuole essere il migliore. Grazie ad investimenti miliardari, l’azienda ha cambiato volto, sottoposta a un radicale maquillage frutto ponderato di ambiziosi disegni stampati nella fantasia di un architetto insigne. L’esterno è tutto in mattoncini, “nello stile dell’Auditorium di Renzo Piano a Roma”. Al centro, la tortorella simbolo di Erik Banti, che si moltiplica lungo il viale d’accesso illuminandosi al passaggio dei visitatori. Poi nuovi uffici, un’elegante sala degustazione con terrazza affacciata sulla valle, e un “wine shop” in stile californiano. Qui, oltre ai vini, trovano posto le nuove frontiere dell’oro rosso: i prodotti gastronomici griffati dalle tortorelle (salse di pomodoro, crema di tartufi, carciofi alla romana…) che Erik il gourmet acquista da produttori artigianali da lui personalmente selezionati. E ancora libri e pubblicazioni enogastronomiche, e gadgets con il marchio Erik Banti: t-shirt, cappellini, cavatappi e via dicendo. Tutto all’insegna del “di più”, del bello che forse non serve ma fa la differenza.
Ma che nessuno si lasci ingannare, da Erik il danese. Perché, mentre ti fa vedere come ha realizzato il “restyling”, mentre ti dice “ormai conta l’immagine”, mentre confida che vorrebbe smettere, vendere, abbandonare tutto, ecco che lo ritrovi di nuovo in prima linea nella sfida della vigna. Quando senti la terra tremare sotto i tuoi piedi, diceva un saggio, torna alle origini, al primo giorno in cui scegliesti di essere quel che sei. Ed Erik Banti ritorna al primo giorno, acquistando nuova terra a Poggio Maestrino, nel cuore della doc del Morellino, laddove ha visto la luce il prezioso Annoprimo, che ad ogni vendemmia cambia nome (Annosecondo, Annoterzo e così via) quasi a rimarcare quella “serialità” impossibile dietro ogni opera d’arte. E dove Erik già lavora ai grandi vini del futuro. Mettendo a dimora cloni di Sangiovese, e poi il Merlot, il Cabernet Sauvignon, e per gli esterofili Petit Verdot, Mouvedre, Sirah e Zinfandel, “che poi altro non è che il nostrale primitivo”; palificando i vigneti con i legni della Lapponia svedese, “dove si ottiene dal pino il massimo della sua consistenza”; e continuando a perseguire rese per ettaro ridotte, nel nome della qualità. A Poggio Maestrino, oggi e domani, come a Montemerano venticinque anni fa. Sulle tracce di un sogno di passione che nessun “business plan” potrà mai cancellare.